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Uno di volontari che ha provato a salvare il piccolo Rayan era partito dal sud del Marocco per arrivare sui monti del Rif, per tentare di salvare il bambino. È stato salutato, sui social, come «l'eroe del deserto». E ora affronterà gli stessi incubi di Angelo Licheri, che provò a salvare Alfredino Rampi
Non è arrivato a sfiorarlo, come fece Angelo Licheri con Alfredino Rampi . «Tentai di afferrarlo per la canottierina, ma ho sentito che cedeva», disse a Giusi Fasano che lo intervistò nel 2019 per «7», «allora me ne andai e dissi “ciao piccolino”». Ma gli incubi — è facile immaginarlo — non smetteranno di assillarlo. Ali Sahroui, come lo chiama l'agenzia Afp; «l'Eroe del deserto», come lo chiamano in Marocco, è uno delle decine di soccorritori che sono arrivati nei giorni scorsi per tentare di salvare Rayan, il bimbo di 5 anni caduto in un pozzo mentre giocava, martedì, davanti a casa sua, sulle montagne del Rif, in Marocco. È diventato — suo malgrado, forse — un simbolo: il più applaudito a Tamrout, il villaggio teatro della vicenda, durante le operazioni di soccorso, terminate tragicamente sabato sera. Si era presentato con una maglietta azzurra, e un berretto nero in testa, a chiedere di poter dare una mano.
Secondo le agenzie, viene da Erfoud , nel Sud del Marocco. Ha circa 50 anni, ed è specialista nella perforazione di pozzi . Una professione preziosa, specie in zone dove l'acqua è così scarsa. Appena saputo di quanto era accaduto a Rayan si è messo a disposizione. È partito da Erfoud, percorrendo quasi per intero tutto il Marocco , da sud a nord, per condividere con i tecnici che erano già al lavoro i segreti dei pozzi. Sarebbe sua l'idea del tunnel di raccordo tra il cratere e il punto in cui era precipitato Rayan . Quando sono andati via i bulldozer è stata l'ora di Ali, che con altri giovani ha scavato a mano, fino alla fine. Un lavoro di ore: Ali è entrato nel cratere venerdì, più o meno alle 18, per uscirne solo sabato, a operazione conclusa. Applaudito dalla folla ogni volta che si è affacciato , per bere un sorso d'acqua o per riprendere fiato: la sua foto è diventata virale sui social. Ha contribuito a dar forma al tunnel che doveva rappresentare la via di fuga, per Rayan: e che invece si è invece trasformato nel suo ultimo percorso. Non sappiamo se sia già ripartito, o se intenda partecipare ai funerali del piccolo Rayan. Ma il pensiero di tutti, osservandolo, è andato alle parole di Licheri, scomparso pochi mesi fa. Anche lui — sardo di Gavoi — era partito all'improvviso da dove abitava, a Roma, per raggiungere Vermicino. Faceva il fattorino per una tipografia, seguì l'inizio della vicenda davanti allo schermo, come altri 32 milioni di telespettatori. Come ha scritto Giusi Fasano qui: «Rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: "Esco a prendere le sigarette". E lei: "Fra mezz’ora è pronta la cena". Lo vide uscire e - confesserà dopo - le venne spontaneo un pensiero: "Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino...". Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. "Che fai?" aveva chiesto. "Niente, un po’ di ginnastica", aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì». «Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», disse, sempre a 7. «"Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io. Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto. Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene... Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa..." Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimise e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. «Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino"».
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